Gigi Proietti: Ma l'amor mio non muore

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Proveperunsito live space

 

2006 Di Gigi Proietti su testi di Ettore Petrolini Regia di Gigi Proietti

Con Marco Simeoli, Sandra Collodel, Marco Zadra

L’orchestra esordisce con i Salamini, e chissà se gli accordi dissonanti che accompagnano in primis il motivetto sono stati scritti da quel genio di Petrolini oppure decisi in fase di arrangiamento dal Maestro Vicari che, in caso, merita egli stesso l’appellativo di genio, poiché solo con essi ha svelato il manifesto dello spettacolo e dell’intera poetica di Petrolini, riassunta sul retro della locandina in omaggio all’ingresso del teatro: L’arte sta nella deformazione.

Gigi, col regolamentare "fumando" (Petrolini in fondo agiva in tempi di autarchia, e non era permesso utilizzare parole straniere), puntualizza come nessuno abbia pensato a celebrare i 70 anni dalla morte del grande autore, che contrappone a Pirandello, e ci informa che il 1936 è stato un anno veramente sfigato: sono morti Petrolini, indecentemente giovane, Fregoli, e dulcis in fundo è nato Berlusconi.

Il primo brano è quello che dà il titolo allo spettacolo, e potete vederlo anche su proveperunsito fino alla fine del mese. Ciò che non potete vedere se non avete il biglietto, è il fenomeno di possessione diabolica che si realizza quando, spento l’occhio di bue nel quale finora Gigi si è infilato il costume da clown, nella luce azzurrina di un passato che ritorna, la maschera perfetta di Ettore Petrolini si materializza davanti agli occhi.

Poi il clown si allontana e la scena si anima dei colori della vecchia Roma, oleografici (in fondo, perché no? Il luogo comune diventa tale essendo trasmesso di generazione in generazione, e alla fin fine "vox populi, vox Dei"), vivaci, i monumenti di cartapesta sullo sfondo a contestualizzare la scena e a sottolineare la distanza del popolino che tra essi vive inconsapevolmente come i gatti, senza in fondo condividerne la grandezza. Ne approfitto per un complimento sentitissimo allo scenografo, che ha utilizzato anche pedane semoventi di grandissimo effetto, ed alla costumista.

In questa scena fa la sua entrata Archimede che inanella, come capita agli ubriachi, strafalcioni esilaranti e verità sacrosante, e a questo tipo di ciabattino filosofo, il più anarchico dei personaggi presentati, Gigi fa irridere la retorica del paese spaccato a metà, quella del nuovo che avanza, quella della contrapposizione tra nord e sud, poiché non è semplicemente una commedia di Petrolini che si ripropone qui, ma un modo di fare teatro sempre con un occhio all’attualità e l’altro strizzato verso il pubblico a cercarne la complicità. Non ha bisogno di fare nomi, Gigi, perché dire che il re è nudo è prerogativa dei bambini e dei giullari.

Esaurita l’ubriachezza di Archimede, Gigi esce dal personaggio per tornare sé stesso (è tutto un entrà, uscì, entrà, uscì… certe corenti d’aria…) nella divisa che ormai tutti conosciamo, si appoggia su uno sgabello, abbraccia la chitarra e ne fa vibrare lo struggimento che in questo spettacolo si ritaglia solo questo momento, riproponendo lo stornello che Puccini utilizzò per la Cantata del Pastorello all’inizio del terzo atto di Tosca, e una seicentesca canzone di carcerati in cui, sia pure a mezza voce, ruggisce l’ira e la disperazione del leone in gabbia. E poi smitizza l’atmosfera cupa che un attimo prima ha creato raccontando un celeberrimo aneddoto del suo inizio di carriera che qui non vi svelo poiché tutta la sua dirompenza sta nel racconto.

Il rapido intermezzo di una "profonda" canzoncina introduce un brevissimo estratto dal Nerone, e poi è il turno di Benedetto Buriana, bulletto di quartiere prototipo dei tanti poveri ma belli che hanno affastellato la commedia all’italiana. Gigi ritrova la caratterizzazione che ne aveva già proposto, ma gli anni vi hanno poggiato forse un sottile strato di rassegnazione, un po’ come è capitato al Fioretti Bruno della Mandrakata, contro il quale il bulletto lotta da titano mentre si barcamena tra le tante che vorrebbero mettergli le mani addosso (aggiungetemi pure alla lista, please).

Gastone entra in scena in mezzo a fumi infernali, in silhouette contro lo sfondo rosso della perdizione: è un personaggio diabolico, dice Gigi, del tutto privo di pietas (poi dirà anche che è privo di pietà, ma pietas e pietà sono due concetti diversi, e godo nel sentirgliene parlare, a volte vorrei partecipare a una sua lezione solo per imparare qualcosa in più di quel tanto che appena accenna), così negativo da costringere ogni sera il commendator Petrolini a far precedere la rappresentazione della commedia da un attore che prendesse le distanze dal personaggio.

Ma nonostante tutti i suoi sforzi per convincerci dell’immoralità del personaggio, di cui invece è forse profondamente innamorato, non riesce che a renderlo adorabile, ridicolizzandone la dipendenza dalla cocaina, trasformandolo nell’acido battutista che, fingendosi scemo, mette in burletta le velleità dei cummenda che si alternano nel bordello in cui fa il magnaccia (in effetti il brano della commedia che presenta è originariamente un dialogo in cui il cummenda di turno sottolinea continuamente l’idiozia del personaggio, forse incarnando il pensiero dell’autore; nella versione di questo spettacolo si tratta di un monologo in cui Gastone non è l’imbelle voluto da Petrolini, ma uno che, odiandoli per partito preso, mette alla berlina l’ottusità dei potentucoli).

Peccato che il tempo di Gastone duri veramente molto poco, per lasciare subito spazio all’amata musica sudamericana, con quella Obsesiòn che fa ribollire le ossessioni che ognuno di noi cova nel profondo, con il bellissimo tango argentino dei cinque ballerini della compagnia, la cui coreografia addirittura esalta la sensualità del movimento e della musica, che consente nel frattempo a Gigi di rivestire i panni di Benedetto per i cinque finali cinque della sua commedia. Straordinaria la consapevolezza del proprio corpo che ha Gigi mentre si annoda in faccia un paio di pantaloni nel tentativo di stirarli.

A questo punto la compagnia saluta e se ne va. Per quanto mi riguarda, spicca tra gli attori che circondano Gigi, nella parte della zia di Iole, …….. , capace di restituire, in un ambito farsesco, la dignità ferita della donna brutta e anziana con rapidi accenni commoventi, ben conscia che il suo ruolo è quello di spalla. Di cuore, tutti i miei complimenti.

Gigi invece, da buon anfitrione, si intrattiene ancora un po’ con i suoi ospiti, cui dona, tornando nei propri panni, interrogandosi sul senso della parola "volgarità", una barzelletta che nelle sue mani si trasforma, come sempre, in una perfetta piccola sceneggiatura.

Gigi, il grandissimo contaminatore, come sempre mette nel frullatore le cose che ama, e ce le serve come dolci preziosissimi e rari, purtroppo estremamente rari: la sua leggerezza, la sua intelligenza, il suo impegno, la sua musicalità (che gli consente, anche se la voce necessita ormai di essere amplificata, di donare tanti di quei colori alla più infima delle canzonacce da renderla esplosiva come un quadro di Van Gogh, anche se tra di essi trapela ora qualche ombra cavaraggesca), infine il suo desiderio di divertirsi divertendo.

Non so trovare le parole per ringraziarlo di questo.

Le critiche

la locandina

 

foto tratte dall'edizione online de Il Giornale

 

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foto tratte da dagospia

 

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foto tratta da Il Tempo

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Ringrazio tantissimo per queste foto, pazientemente importate dai servizi televisivi, Fabiola

 

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