La prima vera regia di Gigi per un film, altrettanto
sperimentale di quanto lo era Villa Arzilla, come si può evincere dalla
preferenza accordata alle inquadrature dall’alto, ben poco pratiche per
lo spettatore, ma molto efficaci, che comunque rappresentano il
"punto di vista di Dio", quale un regista di teatro non può mai
apprezzare. La trama è semplicissima, ispirata dal celeberrimo
"Indovina chi viene a cena": Valentina (Cristiana Capotondi), la
figlia adolescente dell’architetto progressista Lorenzo Paradisi (Gigi),
si innamora del vu’ cumprà Mory (Ludgero Fortes Dos Santos, visto
recentemente in Stiamo bene insieme su Raidue), che si è spacciato
per un principe africano. Finchè l’architetto e la moglie Patrizia
(Eliana Miglio), tra l'altro amante dell'arte e della cultura africana,
restano convinti che si tratti di un principe sono disposti ad abbozzare
sul colore della pelle, pur con le mille difficoltà che comporta una
novità così eclatante. Ma quando scopre il mestiere del futuro genero,
Paradisi prima fa di tutto per impedire ai due giovani di rivedersi, poi
si ricorda dei trascorsi giovanili nelle varie sinistre che si sono
avvicendate in questo povero paese, e, dibattendosi nel travaglio di
essersi appena scoperto razzista, fa di tutto perché si rivedano.
Anche questo piccolo, delizioso film da rivalutare, è
stato preceduto da polemiche sterili. All’epoca, polemizzò sui giornali
(la Repubblica, in particolare), la giornalista Barbara Palombelli,
coniuge di Francesco Rutelli e madre adottiva di un bambino di colore,
che, senza neanche aver visto il film, decise che il semplice titolo era
offensivo, che in casa sua l’espressione utilizzata indicava fastidio. A
me sembrava e sembra tuttora evidente che si trattasse di un piccolo gioco
di parole sul nome di un celebre complesso vocale. Dopo la trasmissione
del film, che portò comunque a casa sette milioni e mezzo di
telespettatori, comparvero sui giornali altre critiche, ben più
pregnanti, nelle quali si accusavano il regista e la co-sceneggiatrice
Lidia Ravera di aver rappresentato tutti i più beceri luoghi comuni dell’armamentario
antirazzista, compreso il mito del buon selvaggio. Nell’opinione di chi
scrive si trattava solo di una piccola favola moderna, nella quale, con la
leggerezza che lo distingue, e che mai e poi mai significa faciloneria,
Gigi tentava di dare una sua risposta ai problemi dell’immigrazione, ben
sapendo che si tratta di una risposta utopistica che può trovare il suo
spazio solo nella fantasia. E forse, visto che nel periodo dell’uscita
del film la figlia Susanna, allora impegnata a Londra in un corso di
scenografia, gli ha fatto uno scherzo del genere (fonte Maurizio
Costanzo), è stato anche una piccola seduta di autoanalisi.